Negli
anni Novanta, le reti commerciali italiane avevano l’abitudine mandare in
onda disaster movie a sfondo naturale per arginare l’emorragia estiva di spettatori.
''LA FINE È UNA COSA PRIVATA'' (in Italian) by Claudia Durastanti
ENGLISH below by Kitty Rock in Rome. THAN K YOU, Dr ROCK!
RE:
Ambientati negli Stati Uniti ma con qualche concessione al Messico e all’Australia, alternavano eruzioni vulcaniche a glaciazioni improvvise, o implicavano specie animali mutanti la cui estinzione era assicurata da fuochi purificatori di tipo esorcistico più che dall’applicazione di formule scientifiche.
Una decina di anni
dopo, il protocollo di Kyoto, Al Gore e la fine del calendario Maya hanno
trasformato lo scenario: le conseguenze percepibili del climate change e la paranoia che ha spinto persone particolarmente
sensibili alla riduzione delle risorse a creare bunker nei deserti – questa
volta non per l’olocausto nucleare, ma per una congiuntura astrologica
rivelatasi fallace e tuttavia capace di disegnare interi mondi sotterranei – ha
spinto le produzioni cinematografiche hollywoodiane o indipendenti a
trasformare i disaster
movie in pellicole con un sottotesto
esistenziale nel migliore dei casi, e religioso nel peggiore.
During the
90's the Italian Tvs used to broadcast natural disaster movies with the
aim of containing the hemorrhagic summer crowd. Set in the USA, with some
incursion into Mexico or Australia, they alternated volcanic eruptions to
unexpected glaciations, sometimes involving mutant animals whose extinction was
assured by purifying fires (generally related to exorcism) rather than the
application of scientific formulas. A decade later, Kyoto's Protocol, Al Gore
and the end of Maya's calendar have transformed our scenario: the perceptible
consequences of climate change and the paranoia, pushing those particularly
sensitive to the increasing shortage of our resources to create desert bunker -
this time not because of nuclear holocaust but for an astrological conjunction
which has been revealed as false, yet still capable of drawing entire
underground worlds - have convinced both hollywood and the independent
cinematic industry to transform disaster movies into films with an existential
subtext, in the best cases, or religious overtone, in the worst.
I disaster
movie di prima generazione si basavano su una premessa implicita ma
fondamentale: tutto questo è terribile, ma non sta succedendo a te,
e non è neanche davvero possibile. C’era un misto di schadenfreude, autocompiacimento per la propria distanza da
ghiacciai, faglie e vulcani e senso di immunità. L’immaginario di questi film
era spettacolare ma prevedibile, condiviso e innocuo.
Da The Day After Tomorrow del 2004 in poi, la componente escatologica e moralizzante dei disaster movie è diventata endemica: la fine di tutte le cose non solo è sempre più possibile, ma anche carica di implicazioni comportamentali ed ecologiche, e l’ingenuità del linguaggio viene sacrificata a vantaggio di una rappresentazione cupa e conflittuale della salvezza.
Da The Day After Tomorrow del 2004 in poi, la componente escatologica e moralizzante dei disaster movie è diventata endemica: la fine di tutte le cose non solo è sempre più possibile, ma anche carica di implicazioni comportamentali ed ecologiche, e l’ingenuità del linguaggio viene sacrificata a vantaggio di una rappresentazione cupa e conflittuale della salvezza.
First generation disaster movies were based on
an implicit yet basic assumption: all of this is terrible, but it is not
happening to me, and actually it is not even possible. there was a sort of Schadenfreude
(lit. malicious joy),
self-satisfaction and a sense of immunity in finding oneself far enough from
glaciers, volcanoes and faults. From The Day after Tomorrow in 2004 on, the
eschatological and moralising component of disaster movies has become endemic:
the end of all things has not only become possible, but also pregnant of
behavioural and ecological implications, while language naïveté has been
sacrificed in the name of a gloomy and conflicting representation of salvation.
Le
inquadrature finali dei primi disaster movie erano seriali:dopo il sacrificio di parte dell’umanità, i
sopravvissuti si pulivano il volto da residui di fango o emergevano eroici e
anneriti dalle fiamme. Nel cinema apocalittico più recente, quando
sopravvivono, i protagonisti tendono a suggerire un senso di sconforto per
un’umanità che non si ravvede, e la soluzione è sempre temporanea; l’asteroide
è stato neutralizzato, ma l’incedere sicuro di chi lo ha fermato scompare.
Le differenze sono
tali che l’intera categoria andrebbe ripensata: un prodotto come San Andreas (legato all’omonima faglia) non ha niente in comune
con Take
Shelter di Jeff Nichols,
se non la relativa impotenza dell’uomo davanti alla natura matrigna. Se il
primo tutt’al più fa crollare le quotazioni del mercato immobiliare
californiano, il secondo ridefinisce la nostra gnoseologia del disastro, dove
l’apocalisse diventa privata quando non esclusivamente personale, una
condizione permanente e senza climax. I nuovi cli-fi si basano sulla testimonianza: non è un caso che
memoir di sopravvivenza e film che implicano la riscossa dell’individuo da
sorti naturali o spaziali avverse escano a gettito continuo
the last film shots of the first disaster movies
were serial: after the sacrifice of part of humanity, the survivors took the
mud off their faces or heroically emerged from the fire covered in black. in
the recent apocalyptic cinema, when they survive, the protagonists tend to
suggest a sense of discomfort with the unrepentant humanity, and the solution
is just temporary; the asteroid was neutralized but the solemn gait of the one
who has stopped it, suddenly becomes an uncertain walk. the difference is so
clear that the whole genre would deserve new thoughts: a product like San
Andreas (related to the fault with the same name) has got nothing to do with
Take Shelter by Jeff Nichols, except man's relative impotence in front of
unkind nature. If in the former movie the Californian real estate market is led
to crash, the latter redefines our gnosiology of disaster, where the apocalypse
becomes private when not exclusively personal, a permanent condition without
climax. the new sci-fi movies are based on testimony: it is not a case that
surviving memoirs and films involving individual comeback from adverse natural
or spatial events are continuously released.
L’arte
e la rete hanno preso questa nuova forma di apocalisse e ne hanno ricavato
prodotti dagli esiti alterni. Su
Tumblr, il disastro come costante ha assunto il tono fondamentale del ruin porn e della detroitizzazione del mondo, mentre tra i film il cui appagamento
estetico deriva dalla mancanza di risorse va annoverato Mad Max: Fury Road di
George Miller, che
dei primi disaster
movie preserva la totale assenza di una
connotazione morale, generando un risultato al limite tra avanguardia e
ovvietà. In due ore di film, il pensiero non va mai a quello che ci ha fatto il
petrolio ed è un risultato da considerare, perché il film parla solo di petrolio.
Nei vecchi
blockbuster, il rischio della magniloquenza era sempre in agguato. Anzi, quei
film erano interamente fondati su tale rischio espressivo, al punto da
neutralizzarlo e garantire una visione priva di resistenza e fastidio, mentre
in un pellicole come The
Revenant di Inarritu l’incontrollabilità
della natura viene espressa con un tale dispiegamento di mezzi e sottoposta a
ore di post-produzione fino a diventare un mélange di National Geographic per
nichilisti e approdare a una dicotomia uomo-natura bellissima e vuota che
risulta ancora più improbabile di quella sperimentata da Pierce Brosnan quando
cercava di difendersi dalla lava in Dante’s Peak.
E’ per i motivi
elencati e i risultati provvisori raggiunti, che forse il lavoro più bello
sull’intimità del disastro e della suo ripiegamento esistenziale è Such
Mean Estate, un
libro fotografico curato dall’artista Ryan Spencer per powerHouse Books nel 2015, nato da una
collaborazione con Leslie
Jamison – l’autrice di The Empathy Exams – che ne ha curato i testi.
Spencer ha trascorso
circa due anni a visualizzare una settantina di pellicole sull’apocalisse e il
disastro climatico, prima di isolarne dei fermo immagine e fotografare le
inquadrature selezionate con una Polaroid Land Camera. Il risultato è una serie
di istantanee in bianco e nero prive di volti in primo piano, spesso
focalizzate su un dettaglio, di cui è difficile stabilire se appartengano a Children of Men o The Road.
Sono fotografie quasi sempre laconiche, gravi ma anche rarefatte, che tengono insieme i due elementi fondamentali dei disaster movie: la visione passiva e la testimonianza, la distanza dagli eventi ma la consapevolezza che sono sempre possibili – se non già accaduti.
Sono fotografie quasi sempre laconiche, gravi ma anche rarefatte, che tengono insieme i due elementi fondamentali dei disaster movie: la visione passiva e la testimonianza, la distanza dagli eventi ma la consapevolezza che sono sempre possibili – se non già accaduti.
È
un’opera a tratti ambigua, perché
può rivendicare la bellezza del tracollo affrancandola dal senso di colpa, e ha
più a che fare con lo spazio negativo dei sogni con che con l’economia e la
razionalità delle scelte quotidiane. Isolate e private di didascalie o testi in
appendice, queste immagini sembrano in controtendenza con il dogma per cui un
comportamento umano migliore genererà un mondo migliore; un approccio ecologico
che condiziona inevitabilmente tanta filmografia e letteratura di recente
produzione.
Ma il piacere che deriva dall’inoltrarsi nella wasteland viene sempre corretto da qualcos’altro, e Such Mean Estare non fa che rinnovare le domande sulle interconnessioni tra destino individuale e comportamento collettivo. Non approda a una visione prescrittiva di ciò che è bene e ciò che è male, ma non rinuncia a suggerire che il problema vada posto: non sono più tempi di scenari improbabili, e le possibilità dell’arte cambiano quando l’apocalisse è una parte integrale e stabile del presente, in cui alla memoria di come sarebbe finito il mondo, si sostituisce quella del mondo che finisce.
Ma il piacere che deriva dall’inoltrarsi nella wasteland viene sempre corretto da qualcos’altro, e Such Mean Estare non fa che rinnovare le domande sulle interconnessioni tra destino individuale e comportamento collettivo. Non approda a una visione prescrittiva di ciò che è bene e ciò che è male, ma non rinuncia a suggerire che il problema vada posto: non sono più tempi di scenari improbabili, e le possibilità dell’arte cambiano quando l’apocalisse è una parte integrale e stabile del presente, in cui alla memoria di come sarebbe finito il mondo, si sostituisce quella del mondo che finisce.
Spencer ha dichiarato
di essersi ispirato a un libro di culto del fotografo giapponese Masahisa Fukase, The
Solitude of Ravens, per
il modo in cui questo lavoro ha messo in tensione natura e industria. In realtà
le foto di Such
Mean Estate sembrano più prossime
a quelle di Kikuji
Kawada, che in The Last Cosmology ha generato immagini catastrofiche (a loro volta
influenzate dalla pittura di Emil Nolde) radicalmente cariche di empatia.
The Last Cosmology
Nel
susseguirsi di psicosi da bunker e di allarmi sul climate change sottoposti
a negoziazioni politiche; nell’alternanza
di tsunami e di centrali nucleari che esplodono, di risorse senza alternative a
cui un’umanità spinta ai suoi minimi termini bionici si oppone, c’è una domanda
che viene in mente, ed è quella a cui forse risponderanno i disaster movie del prossimo futuro: Cosa succede ai culti
dell’Apocalisse quando il mondo non viene distrutto?
E’ qualcosa a cui ho
pensato un giorno di dicembre in cui a Londra l’aria era così calda e umida che
sembrava stessero per piovere rane, e i miei colleghi parlavano di fiori che
stavano spuntando nonostante il parere oltraggiato dei botanici, e il senso era
che tutto stava per finire da lì a cinque minuti, ogni giorno, per l’eternità.
Un disagio che avvertivano tutti– un’anomalia climatica confermata dai notiziari e bollettini meteo– ma che si è tradotto, chissà perché, in un senso di desolazione sempre più rassegnato e solitario.
Un disagio che avvertivano tutti– un’anomalia climatica confermata dai notiziari e bollettini meteo– ma che si è tradotto, chissà perché, in un senso di desolazione sempre più rassegnato e solitario.
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