LA FINE È UNA COSA PRIVATA
An essay about cli-fi novels and cli-fi movies from an Italian well-versed in the genre
''The Ending is a private thing''
di Claudia Durastanti
About the Author:
Claudia Durastanti was born in Brooklyn NEW YORK in 1984. She lives in Rome, where she graduated from college with a degree in Publishing and Journalism. She lives in London now.
Nasce e trascorre l'infanzia a Brooklyn. Si trasferisce in Basilicata all'età di sette anni. Negli anni successivi torna regolarmente negli USA[1].
La compresenza nello stile di diverse culture letterarie è considerata uno dei fattori di originalità dell'autrice[2].
Compie gli studi universitari a Roma, dove comincia l'attività di giornalista musicale per la webzine Indie For Bunnies e per la rivista Il Mucchio Selvaggio.
Nel 2010 pubblica per Marsilio il romanzo d'esordio, Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra, che ottiene il Premio Castiglioncello Opera Prima e il Premio Mondello Giovani.
Nel 2013, sempre per Marsilio, pubblica A Chloe, per le ragioni sbagliate. Vive a Londra [3].
| 3 marzo 2016
Claudia Durastanti (Brooklyn, 8 giugno 1984) è una scrittrice e giornalista italiana naturalizzata statunitense.
https://it.wikipedia.org/wiki/Claudia_Durastanti
About the Author:
Claudia Durastanti was born in Brooklyn NEW YORK in 1984. She lives in Rome, where she graduated from college with a degree in Publishing and Journalism. She lives in London now.
Nasce e trascorre l'infanzia a Brooklyn. Si trasferisce in Basilicata all'età di sette anni. Negli anni successivi torna regolarmente negli USA[1].
La compresenza nello stile di diverse culture letterarie è considerata uno dei fattori di originalità dell'autrice[2].
Compie gli studi universitari a Roma, dove comincia l'attività di giornalista musicale per la webzine Indie For Bunnies e per la rivista Il Mucchio Selvaggio.
Nel 2010 pubblica per Marsilio il romanzo d'esordio, Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra, che ottiene il Premio Castiglioncello Opera Prima e il Premio Mondello Giovani.
Nel 2013, sempre per Marsilio, pubblica A Chloe, per le ragioni sbagliate. Vive a Londra [3].
| 3 marzo 2016
Claudia Durastanti (Brooklyn, 8 giugno 1984) è una scrittrice e giornalista italiana naturalizzata statunitense.
https://it.wikipedia.org/wiki/Claudia_Durastanti
https://www.pixartprinting.it/blog/such-mean-estate-la-fine-e-una-cosa-privata/
The excellent debut of a new writer.
«Claudia Durastanti depicts her American tales with that perfect reliability, that calibration of ambiences, dialogues, gestures that must be drawn from direct experience, from a certain way to look at streets and scenarios, to feel their scent» Paolo Mauri, La Repubblica
Thirty years. Thirty years of American history, thirty years of desires and expectations. About love, escapism and falls. Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (Stones at your window) is the cruel and way too human epopee of six different teenhoods, six ways to intend life in its traumatic twists. Michael and Jane, Francis and Zelda, Edward and Ginger: tales of encounters and detachment, of forced solitudes that, from the Seventies in New Jersey, move to the dirty pureness of Manhattan in the Nineties. Pop art, contestation, punk scene and the illusionary dream of possible rebellion. With passionate tone and extraordinary ability to craft and cut a story, Claudia Durastanti tells what she knows about America- where she was born and half raised- while reinventing it, touching some loose ends of our past and revealing herself to be one of the most aware and powerful voices in contemporary Italian writing.
«A surprising debut… Claudia Durastanti, born in Brooklyn, writes in Italian and reveals singular control of this language, the ability to articulate her stories with richness in expression, sharp details and nuances that are really rare» Angelo Guglielmi, La Stampa
«In her brilliant literary debut Claudia Durastanti tells about a bitter generation who pays the illusion to keep up with its dreams and to deserve them» Veronica Raimo, Rolling Stone
»Durastanti portrays the tangled lives of six young Americans from the Seventies till nowadays… dense language and ambitious style, “pop” stealing everything possible from thirty years of American history» Daniele Castellani Perelli, Europa
Premio Castiglioncello First Novel 2010
Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra
(English suggested title: Stones at your window)The excellent debut of a new writer.
«Claudia Durastanti depicts her American tales with that perfect reliability, that calibration of ambiences, dialogues, gestures that must be drawn from direct experience, from a certain way to look at streets and scenarios, to feel their scent» Paolo Mauri, La Repubblica
Thirty years. Thirty years of American history, thirty years of desires and expectations. About love, escapism and falls. Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (Stones at your window) is the cruel and way too human epopee of six different teenhoods, six ways to intend life in its traumatic twists. Michael and Jane, Francis and Zelda, Edward and Ginger: tales of encounters and detachment, of forced solitudes that, from the Seventies in New Jersey, move to the dirty pureness of Manhattan in the Nineties. Pop art, contestation, punk scene and the illusionary dream of possible rebellion. With passionate tone and extraordinary ability to craft and cut a story, Claudia Durastanti tells what she knows about America- where she was born and half raised- while reinventing it, touching some loose ends of our past and revealing herself to be one of the most aware and powerful voices in contemporary Italian writing.
«A surprising debut… Claudia Durastanti, born in Brooklyn, writes in Italian and reveals singular control of this language, the ability to articulate her stories with richness in expression, sharp details and nuances that are really rare» Angelo Guglielmi, La Stampa
«In her brilliant literary debut Claudia Durastanti tells about a bitter generation who pays the illusion to keep up with its dreams and to deserve them» Veronica Raimo, Rolling Stone
»Durastanti portrays the tangled lives of six young Americans from the Seventies till nowadays… dense language and ambitious style, “pop” stealing everything possible from thirty years of American history» Daniele Castellani Perelli, Europa
Premio Castiglioncello First Novel 2010
Negli anni Novanta, le reti commerciali italiane avevano l’abitudine mandare in onda disaster movie a sfondo naturale per arginare l’emorragia estiva di spettatori.
Ambientati negli Stati Uniti ma con qualche concessione al Messico e all’Australia, alternavano eruzioni vulcaniche a glaciazioni improvvise, o implicavano specie animali mutanti la cui estinzione era assicurata da fuochi purificatori di tipo esorcistico più che dall’applicazione di formule scientifiche.
Ambientati negli Stati Uniti ma con qualche concessione al Messico e all’Australia, alternavano eruzioni vulcaniche a glaciazioni improvvise, o implicavano specie animali mutanti la cui estinzione era assicurata da fuochi purificatori di tipo esorcistico più che dall’applicazione di formule scientifiche.
Una decina di anni dopo, il protocollo di Kyoto, Al Gore e la fine del calendario Maya hanno trasformato lo scenario: le conseguenze percepibili del climate change e la paranoia che ha spinto persone particolarmente sensibili alla riduzione delle risorse a creare bunker nei deserti – questa volta non per l’olocausto nucleare, ma per una congiuntura astrologica rivelatasi fallace e tuttavia capace di disegnare interi mondi sotterranei – ha spinto le produzioni cinematografiche hollywoodiane o indipendenti a trasformare i disaster movie in pellicole con un sottotesto esistenziale nel migliore dei casi, e religioso nel peggiore.
I disaster movie di prima generazione si basavano su una premessa implicita ma fondamentale: tutto questo è terribile, ma non sta succedendo a te, e non è neanche davvero possibile. C’era un misto di schadenfreude, autocompiacimento per la propria distanza da ghiacciai, faglie e vulcani e senso di immunità. L’immaginario di questi film era spettacolare ma prevedibile, condiviso e innocuo.
Da The Day After Tomorrow del 2004 in poi, la componente escatologica e moralizzante dei disaster movie è diventata endemica: la fine di tutte le cose non solo è sempre più possibile, ma anche carica di implicazioni comportamentali ed ecologiche, e l’ingenuità del linguaggio viene sacrificata a vantaggio di una rappresentazione cupa e conflittuale della salvezza.
Da The Day After Tomorrow del 2004 in poi, la componente escatologica e moralizzante dei disaster movie è diventata endemica: la fine di tutte le cose non solo è sempre più possibile, ma anche carica di implicazioni comportamentali ed ecologiche, e l’ingenuità del linguaggio viene sacrificata a vantaggio di una rappresentazione cupa e conflittuale della salvezza.
Le inquadrature finali dei primi disaster movie erano seriali: dopo il sacrificio di parte dell’umanità, i sopravvissuti si pulivano il volto da residui di fango o emergevano eroici e anneriti dalle fiamme. Nel cinema apocalittico più recente, quando sopravvivono, i protagonisti tendono a suggerire un senso di sconforto per un’umanità che non si ravvede, e la soluzione è sempre temporanea; l’asteroide è stato neutralizzato, ma l’incedere sicuro di chi lo ha fermato scompare.
Le differenze sono tali che l’intera categoria andrebbe ripensata: un prodotto come San Andreas (legato all’omonima faglia) non ha niente in comune con Take Shelter di Jeff Nichols, se non la relativa impotenza dell’uomo davanti alla natura matrigna. Se il primo tutt’al più fa crollare le quotazioni del mercato immobiliare californiano, il secondo ridefinisce la nostra gnoseologia del disastro, dove l’apocalisse diventa privata quando non esclusivamente personale, una condizione permanente e senza climax. I nuovi cli-fi si basano sulla testimonianza: non è un caso che memoir di sopravvivenza e film che implicano la riscossa dell’individuo da sorti naturali o spaziali avverse escano a gettito continuo.
Take Shelter, 2011
L’arte e la rete hanno preso questa nuova forma di apocalisse e ne hanno ricavato prodotti dagli esiti alterni. Su Tumblr, il disastro come costante ha assunto il tono fondamentale del ruin porn e della detroitizzazione del mondo, mentre tra i film il cui appagamento estetico deriva dalla mancanza di risorse va annoverato Mad Max: Fury Road di George Miller, che dei primi disaster movie preserva la totale assenza di una connotazione morale, generando un risultato al limite tra avanguardia e ovvietà. In due ore di film, il pensiero non va mai a quello che ci ha fatto il petrolio ed è un risultato da considerare, perché il film parla solo di petrolio.
Nei vecchi blockbuster, il rischio della magniloquenza era sempre in agguato. Anzi, quei film erano interamente fondati su tale rischio espressivo, al punto da neutralizzarlo e garantire una visione priva di resistenza e fastidio, mentre in un pellicole come The Revenant di Inarritu l’incontrollabilità della natura viene espressa con un tale dispiegamento di mezzi e sottoposta a ore di post-produzione fino a diventare un mélange di National Geographic per nichilisti e approdare a una dicotomia uomo-natura bellissima e vuota che risulta ancora più improbabile di quella sperimentata da Pierce Brosnan quando cercava di difendersi dalla lava in Dante’s Peak.
E’ per i motivi elencati e i risultati provvisori raggiunti, che forse il lavoro più bello sull’intimità del disastro e della suo ripiegamento esistenziale è Such Mean Estate, un libro fotografico curato dall’artista Ryan Spencer per powerHouse Books nel 2015, nato da una collaborazione con Leslie Jamison – l’autrice di The Empathy Exams – che ne ha curato i testi.
Spencer ha trascorso circa due anni a visualizzare una settantina di pellicole sull’apocalisse e il disastro climatico, prima di isolarne dei fermo immagine e fotografare le inquadrature selezionate con una Polaroid Land Camera. Il risultato è una serie di istantanee in bianco e nero prive di volti in primo piano, spesso focalizzate su un dettaglio, di cui è difficile stabilire se appartengano a Children of Men o The Road.
Sono fotografie quasi sempre laconiche, gravi ma anche rarefatte, che tengono insieme i due elementi fondamentali dei disaster movie: la visione passiva e la testimonianza, la distanza dagli eventi ma la consapevolezza che sono sempre possibili – se non già accaduti.
Sono fotografie quasi sempre laconiche, gravi ma anche rarefatte, che tengono insieme i due elementi fondamentali dei disaster movie: la visione passiva e la testimonianza, la distanza dagli eventi ma la consapevolezza che sono sempre possibili – se non già accaduti.
È un’opera a tratti ambigua, perché può rivendicare la bellezza del tracollo affrancandola dal senso di colpa, e ha più a che fare con lo spazio negativo dei sogni con che con l’economia e la razionalità delle scelte quotidiane. Isolate e private di didascalie o testi in appendice, queste immagini sembrano in controtendenza con il dogma per cui un comportamento umano migliore genererà un mondo migliore; un approccio ecologico che condiziona inevitabilmente tanta filmografia e letteratura di recente produzione.
Ma il piacere che deriva dall’inoltrarsi nella wasteland viene sempre corretto da qualcos’altro, e Such Mean Estare non fa che rinnovare le domande sulle interconnessioni tra destino individuale e comportamento collettivo. Non approda a una visione prescrittiva di ciò che è bene e ciò che è male, ma non rinuncia a suggerire che il problema vada posto: non sono più tempi di scenari improbabili, e le possibilità dell’arte cambiano quando l’apocalisse è una parte integrale e stabile del presente, in cui alla memoria di come sarebbe finito il mondo, si sostituisce quella del mondo che finisce.
Ma il piacere che deriva dall’inoltrarsi nella wasteland viene sempre corretto da qualcos’altro, e Such Mean Estare non fa che rinnovare le domande sulle interconnessioni tra destino individuale e comportamento collettivo. Non approda a una visione prescrittiva di ciò che è bene e ciò che è male, ma non rinuncia a suggerire che il problema vada posto: non sono più tempi di scenari improbabili, e le possibilità dell’arte cambiano quando l’apocalisse è una parte integrale e stabile del presente, in cui alla memoria di come sarebbe finito il mondo, si sostituisce quella del mondo che finisce.
Spencer ha dichiarato di essersi ispirato a un libro di culto del fotografo giapponese Masahisa Fukase, The Solitude of Ravens, per il modo in cui questo lavoro ha messo in tensione natura e industria. In realtà le foto di Such Mean Estate sembrano più prossime a quelle di Kikuji Kawada, che in The Last Cosmology ha generato immagini catastrofiche (a loro volta influenzate dalla pittura di Emil Nolde) radicalmente cariche di empatia.
The Last Cosmology
Nel susseguirsi di psicosi da bunker e di allarmi sul climate change sottoposti a negoziazioni politiche; nell’alternanza di tsunami e di centrali nucleari che esplodono, di risorse senza alternative a cui un’umanità spinta ai suoi minimi termini bionici si oppone, c’è una domanda che viene in mente, ed è quella a cui forse risponderanno i disaster movie del prossimo futuro: Cosa succede ai culti dell’Apocalisse quando il mondo non viene distrutto?
E’ qualcosa a cui ho pensato un giorno di dicembre in cui a Londra l’aria era così calda e umida che sembrava stessero per piovere rane, e i miei colleghi parlavano di fiori che stavano spuntando nonostante il parere oltraggiato dei botanici, e il senso era che tutto stava per finire da lì a cinque minuti, ogni giorno, per l’eternità.
Un disagio che avvertivano tutti– un’anomalia climatica confermata dai notiziari e bollettini meteo– ma che si è tradotto, chissà perché, in un senso di desolazione sempre più rassegnato e solitario.
Un disagio che avvertivano tutti– un’anomalia climatica confermata dai notiziari e bollettini meteo– ma che si è tradotto, chissà perché, in un senso di desolazione sempre più rassegnato e solitario.
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