Bruno Arpaia, 'Qualcosa, là fuori' - La recensione
Un viaggio avventuroso con gli scafisti del 2080 A.D.: il futuro contemporaneo di un pianeta morente
In the novels of Bruno Arpaia one of the most charming aspects is the role of science: strict in sources and in the arguments put forward yet completely at the service of the plot. Something out there pushes the suggestion in the near future, to here of parallel worlds evoked by the energy of the vacuum. Is a news on the road from cinematographic cuts that in its own way takes the place of science itself - to the multiplication of its appeals inascoltabili, annoying as insects - in making imaginable the horizon that perhaps awaits us. Between neuroscience and cli-fi -- aka climate fiction, a nightmare limpid, inexorable, compelling: a formidable allegory of the present.
Time, Space, light. Is a tripartite synesthesia and distorted to govern the structure of something out there. The action takes place in 2080 or thereabout, women soldiers guide a transhumance desperate from Italy to Scandinavia, the north still living in a world that is dying. Liveable and armoured therefore by the European Union of the north, beyond the Baltic Sea penetrated in the lowlands of the Germanic in a maze of mangroves. To his adventures in the middle of the caravan Livio, the elderly protagonist, sandwiching dramatic flashback of the past: the failure of the technological revolution, America that expels immigrants, Naples a casbah prey of chaos, the regression of civilization.
The light pervades this novel so ansiogena, spectral. Now labored to brush the sky behind a ridge, now dense, dusty, full of lumps and impurities, now bloody and implacable as the sun at midday to braccare migrants. Up to damped at sunset in a "malva painful", a breach of the indigo and the prelude to the dark lercio night and new albe gruesome. With respect to other apocalyptic visions to which particular cinema has accustomed us - typical one of the nature that takes precedence over the planet inurbato - here nature seems to suffer together to his creatures with the rains evaporated before touching the ground, the alvei burned rivers, the coasts impaludate, dust ubiquitous.
The phase shift of the temporal order is at the origin of the thrill that i travels while I write in thirty degrees of spring in Milan. Nobody remembered with accuracy when everything was started but Livio kept in the memory the picture of a polar bear imprisoned in ice, the entries for a conference on climate change held in Paris in '15, epoch in which humanity still believed to be able to repair the planet as you do with a crack in the wall... I now take a newspaper at the event: in the torrid 2016 each month has already reached a record of temperatures on the previous year, 2015 which was the hottest ever strilla Nasa in a low voice. The speed with which increase the global temperatures (April 2016 in Italy has marked 2.8 degrees above average), whisper experts of the Cnr, is higher than the speed with which decisions are taken to mitigate the effects of climate change.
When will it be, or when it was the famous point of no return? The contemporaneity of the future is the brilliant narrative trick that allows the writer to tell the anthropological changes and the social upheaval and politicians to a future that resembles damn at present. The water crisis and the muscular demagoguery in odor of racism of possible new leader of the United States and conflicts in the Middle East and the great migrations that in Europe tickling ancient instincts, recovery of borders and iron curtains, deculturizzazione of society. Naples, recalls Livio, at a certain point sold the Veiled Christ to the museum of Nuuk, Greenland. That fantasy. However a well thought of the world has already gone back, as there are already member of heritage destroyed by violence and fanaticism or by the fury of nature?
Poetic intermezzos are dedicated to the relationship between the time of the exterior and the interior one, to the discovery of the finiteness of the institution (Ground) on which basavamo our representation of infinite, to the mysterious instinct that allows our species to survive even in the face of pain immeasurable. And the perception of fear that slows down the time, the creative process and recreation of the memory. The Madeleine proustiana, Livio tells the day that the dewatering pumps found an unexpected pit, you transustanziò in the base element: water.
Is there something out there behind the clouds of ephemeral storm or just our raffigurarcelo with those colors, flavors that we seem to have already tasted? There is no time for responses. Runs off in one breath this novel as a tide, leaving on the shore a burr of light full of tenderness and solidarity, to float on the long trail of questions.
Qualcosa, là fuori spinge la suggestione nel futuro prossimo, al di qua dei mondi paralleli evocati da L'energia del vuoto. È una novella on the road dal taglio cinematografico che a suo modo prende il posto della scienza stessa - al moltiplicarsi dei suoi appelli inascoltabili, fastidiosi come insetti - nel rendere immaginabile l'orizzonte che forse ci aspetta. Fra neuroscienze e cli-fi -- aka climate fiction, un incubo limpidissimo, inesorabile, avvincente: una formidabile allegoria del presente.
Il tempo, lo spazio, la luce. È una sinestesia tripartita e distorta a governare la struttura di Qualcosa, là fuori. L'azione si svolge nel 2080 o giù di lì, donne soldato guidano una transumanza disperata dall'Italia alla Scandinavia, il nord ancora vivibile in un mondo che sta morendo. Vivibile e perciò blindato dall'Unione Europea del Nord, oltre il mar Baltico penetrato nel bassopiano germanico in un dedalo di mangrovie. Alle sue avventure nel mezzo della carovana Livio, l'anziano protagonista, inframmezza drammatici flashback del passato: il fallimento della rivoluzione tecnologica, l'America che espelle gli immigrati, Napoli una casbah preda del caos, la regressione della civiltà.
La luce pervade questo romanzo in maniera ansiogena, spettrale. Ora affaticata a pennellare il cielo dietro un crinale, ora densa, polverosa, piena di grumi e impurità, ora sanguinosa e implacabile come il sole di mezzogiorno a braccare i migranti. Fino a smorzarsi al tramonto in un "malva doloroso", una breccia d'indaco che prelude al buio lercio della notte e a nuove albe raccapriccianti. Rispetto ad altre visioni apocalittiche a cui soprattutto il cinema ci ha abituato - tipica quella della natura che riprende il sopravvento sul pianeta inurbato - qui la natura sembra soffrire insieme alle sue creature, con le piogge evaporate prima di toccare il suolo, gli alvei riarsi dei fiumi, le coste impaludate, il pulviscolo onnipresente.
Lo sfasamento dell'ordine temporale è all'origine del brivido che mi percorre mentre scrivo nei trenta gradi della primavera milanese. Nessuno ricordava con esattezza quando tutto era cominciato ma Livio serbava nella memoria la foto di un orso polare imprigionato nella banchisa, le voci di una conferenza sul clima tenutasi a Parigi nel '15, epoca in cui l'umanità pensava ancora di poter riparare il pianeta come si fa con una crepa nel muro... Ora prendo un giornale a caso: nel torrido 2016 ogni mese ha già segnato un record di temperature sull'anno precedente, il 2015 che fu il più caldo di sempre, strilla la Nasa a bassa voce. La velocità con cui aumentano le temperature globali (aprile 2016 in Italia ha segnato 2,8 gradi sopra la media), sussurrano gli esperti del Cnr, è superiore alla velocità con cui vengono prese le decisioni per mitigare gli effetti del cambiamento climatico.
Quando sarà, o quando è stato, il famoso punto di non ritorno? La contemporaneità del futuro è il geniale trucco narrativo che permette allo scrittore di raccontare i mutamenti antropologici e gli sconvolgimenti sociali e politici di un futuro che somiglia maledettamente al presente. La crisi idrica e la demagogia muscolare in odor di razzismo del possibile nuovo leader degli Stati Uniti, i conflitti mediorientali e le grandi migrazioni che in Europa solleticano antichi istinti, il ripristino delle frontiere e delle cortine di ferro, la deculturizzazione della società. Napoli, ricorda Livio, a un certo punto vendette il Cristo velato al museo di Nuuk, in Groenlandia. Che fantasia. Però a ben pensarci il mondo è già tornato indietro, quanti ce ne sono già stati di patrimoni dell'umanità distrutti dalla violenza e dal fanatismo, o dalla furia della natura?
Perfino nella dannazione di un tempo disumano, Bruno Arpaia rimane fedele al celebre detto della poetessa americana Muriel Rukeyser ("L'universo è fatto di storie, non di atomi") e a un modo di narrare pieno di ritmo ma nello stesso tempo mite e riflessivo, empatico e con salati guizzi d'ironia, per esempio sull'oasi a 1500 metri dove gli svizzeri si sono asserragliati. Qualcosa, là fuori cioè non è un monito alle coscienze né semplicemente una "scomoda verità". L'avventura dei personaggi si svolge soprattutto sul registro più intimo delle meditazioni e delle relazioni umane.
Poetici intermezzi sono dedicati al rapporto fra il tempo esteriore e quello interiore, alla scoperta della finitezza dell'ente (la Terra) su cui basavamo la nostra rappresentazione di infinito, al misterioso istinto che permette alla nostra specie di sopravvivere anche di fronte a dolori incommensurabili. E alla percezione della paura che rallenta il tempo, al processo creativo e ricreativo della memoria. La madeleine proustiana, racconta Livio il giorno che le idrovore trovarono un pozzo inaspettato, si transustanziò nell'elemento base: l'acqua.
C'è qualcosa, là fuori dietro le nubi di effimera tempesta o siamo solo noi a raffigurarcelo con quei colori, quei sapori che ci sembra di avere già assaggiato? Non c'è tempo per le risposte. Corre via d'un fiato questo romanzo come una marea, lasciando sulla riva una bava di luce piena di tenerezza e solidarietà, a galleggiare sulla lunga scia di domande.
Bruno Arpaia
Qualcosa, là fuori
Guanda
220 pp., 16 euros
Nei romanzi di Bruno Arpaia uno degli aspetti più affascinanti è il ruolo della scienza: rigorosa nelle fonti e nelle argomentazioni eppure completamente al servizio dell'intreccio. Il tempo, lo spazio, la luce. È una sinestesia tripartita e distorta a governare la struttura di Qualcosa, là fuori. L'azione si svolge nel 2080 o giù di lì, donne soldato guidano una transumanza disperata dall'Italia alla Scandinavia, il nord ancora vivibile in un mondo che sta morendo. Vivibile e perciò blindato dall'Unione Europea del Nord, oltre il mar Baltico penetrato nel bassopiano germanico in un dedalo di mangrovie. Alle sue avventure nel mezzo della carovana Livio, l'anziano protagonista, inframmezza drammatici flashback del passato: il fallimento della rivoluzione tecnologica, l'America che espelle gli immigrati, Napoli una casbah preda del caos, la regressione della civiltà.
La luce pervade questo romanzo in maniera ansiogena, spettrale. Ora affaticata a pennellare il cielo dietro un crinale, ora densa, polverosa, piena di grumi e impurità, ora sanguinosa e implacabile come il sole di mezzogiorno a braccare i migranti. Fino a smorzarsi al tramonto in un "malva doloroso", una breccia d'indaco che prelude al buio lercio della notte e a nuove albe raccapriccianti. Rispetto ad altre visioni apocalittiche a cui soprattutto il cinema ci ha abituato - tipica quella della natura che riprende il sopravvento sul pianeta inurbato - qui la natura sembra soffrire insieme alle sue creature, con le piogge evaporate prima di toccare il suolo, gli alvei riarsi dei fiumi, le coste impaludate, il pulviscolo onnipresente.
Lo sfasamento dell'ordine temporale è all'origine del brivido che mi percorre mentre scrivo nei trenta gradi della primavera milanese. Nessuno ricordava con esattezza quando tutto era cominciato ma Livio serbava nella memoria la foto di un orso polare imprigionato nella banchisa, le voci di una conferenza sul clima tenutasi a Parigi nel '15, epoca in cui l'umanità pensava ancora di poter riparare il pianeta come si fa con una crepa nel muro... Ora prendo un giornale a caso: nel torrido 2016 ogni mese ha già segnato un record di temperature sull'anno precedente, il 2015 che fu il più caldo di sempre, strilla la Nasa a bassa voce. La velocità con cui aumentano le temperature globali (aprile 2016 in Italia ha segnato 2,8 gradi sopra la media), sussurrano gli esperti del Cnr, è superiore alla velocità con cui vengono prese le decisioni per mitigare gli effetti del cambiamento climatico.
Quando sarà, o quando è stato, il famoso punto di non ritorno? La contemporaneità del futuro è il geniale trucco narrativo che permette allo scrittore di raccontare i mutamenti antropologici e gli sconvolgimenti sociali e politici di un futuro che somiglia maledettamente al presente. La crisi idrica e la demagogia muscolare in odor di razzismo del possibile nuovo leader degli Stati Uniti, i conflitti mediorientali e le grandi migrazioni che in Europa solleticano antichi istinti, il ripristino delle frontiere e delle cortine di ferro, la deculturizzazione della società. Napoli, ricorda Livio, a un certo punto vendette il Cristo velato al museo di Nuuk, in Groenlandia. Che fantasia. Però a ben pensarci il mondo è già tornato indietro, quanti ce ne sono già stati di patrimoni dell'umanità distrutti dalla violenza e dal fanatismo, o dalla furia della natura?
Perfino nella dannazione di un tempo disumano, Bruno Arpaia rimane fedele al celebre detto della poetessa americana Muriel Rukeyser ("L'universo è fatto di storie, non di atomi") e a un modo di narrare pieno di ritmo ma nello stesso tempo mite e riflessivo, empatico e con salati guizzi d'ironia, per esempio sull'oasi a 1500 metri dove gli svizzeri si sono asserragliati. Qualcosa, là fuori cioè non è un monito alle coscienze né semplicemente una "scomoda verità". L'avventura dei personaggi si svolge soprattutto sul registro più intimo delle meditazioni e delle relazioni umane.
Poetici intermezzi sono dedicati al rapporto fra il tempo esteriore e quello interiore, alla scoperta della finitezza dell'ente (la Terra) su cui basavamo la nostra rappresentazione di infinito, al misterioso istinto che permette alla nostra specie di sopravvivere anche di fronte a dolori incommensurabili. E alla percezione della paura che rallenta il tempo, al processo creativo e ricreativo della memoria. La madeleine proustiana, racconta Livio il giorno che le idrovore trovarono un pozzo inaspettato, si transustanziò nell'elemento base: l'acqua.
C'è qualcosa, là fuori dietro le nubi di effimera tempesta o siamo solo noi a raffigurarcelo con quei colori, quei sapori che ci sembra di avere già assaggiato? Non c'è tempo per le risposte. Corre via d'un fiato questo romanzo come una marea, lasciando sulla riva una bava di luce piena di tenerezza e solidarietà, a galleggiare sulla lunga scia di domande.
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© Riproduzione Riservata
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L’umanità sopravvivrà ai cambiamenti climatici? Arriva in Italia la “climate fiction”
di Redazione Il Libraio | 08.05.2016
Nel suo ultimo romanzo Bruno Arpaia immagina un mondo sconvolto dai cambiamenti climatici. In un'Europa devastata, gli uomini migrano verso Nord, in cerca di un posto dove sopravvivere. Arriva anche in Italia la "climate fiction"
Pare sia in arrivo dagli Stati Uniti una nuova tendenza letteraria: la “climate fiction” o “fantaecologia”. Un sottogenere della fantascienza che si concentra sulle conseguenze dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici, immaginando i futuri scenari ecologici con cui dovrà confrontarsi l’umanità.
Bruno Arpaia, primo autore italiano a scrivere “involontariamente” (“In verità, ho scoperto l’esistenza di questo genere quando avevo già scritto i due terzi del romanzo”) un libro che si lega a questo filone (Qualcosa, là fuori, Guanda), ha dichiarato all’Espresso: “Credo che la ‘cli-fi’ ci offra l’opportunità di sapere di più sul cambiamento climatico attivando la parte emozionale di noi stessi. Vivere, attraverso un romanzo, l’innalzamento del livello del mare a New York, o partecipare con i protagonisti di un racconto a una tragica migrazione climatica in una Germania desertificata ci colpisce dritto al cuore e, grazie all’empatia con i personaggi, ci immerge nelle complesse questioni scientifiche alla base degli avvenimenti narrati”.
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E veniamo alla trama del nuovo romanzo di Arpaia, che ci mostra Pianure screpolate, argini di fango secco, fiumi aridi, polvere giallastra, case e capannoni abbandonati: in un’Europa prossima ventura, devastata dai mutamenti climatici, decine di migliaia di “migranti ambientali” sono in marcia per raggiungere la Scandinavia, diventata, insieme alle altre nazioni attorno al circolo polare artico, il territorio dal clima più mite e favorevole agli insediamenti umani.
Livio Delmastro, anziano professore di neuroscienze, è uno di loro. Ha insegnato a Stanford, ha avuto una magnifica compagna, è diventato padre, ma alla fine è stato costretto a tornare in un’Italia quasi desertificata, sferzata da profondi sconvolgimenti sociali e politici, dalla corruzione, dagli scontri etnici, dalla violenza per le strade. Lì, persi la moglie e il figlio, per sedici anni si è ritrovato solo in un mondo che si sta sfaldando, senza più voglia di vivere, ma anche senza il coraggio di farla finita.
Poi, come migliaia di altri, ha pagato guide ed esploratori e ora, tra sete, fame e predoni, cammina in colonna attraverso terre sterili, valli riarse e città in rovina, in un continente stravolto e irriconoscibile
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