Cli-fi, gli scrittori raccontano la Terra malata
Arriva anche in Italia un genere letterario che affronta la sfida dei cambiamenti climatici. Distopie, ambientate in un pianeta preda del riscaldamento globale, che conquistano i lettori
Abbiamo avvelenato il pianeta: come sarebbe vivere su una Terra che trasuda particelle tossiche? L’innalzamento delle acque strappa già via lembi di costa abitata: e se i mari ricoprissero gran parte dei territori conosciuti? E come ci difenderemmo, se il riscaldamento del pianeta sconvolgesse definitivamente le stagioni, lasciandoci in balia di un susseguirsi di eventi estremi?
Abbiamo un’ostinata riluttanza ad accettare che le catastrofi ambientali possano davvero accadere. Trascuriamo o ignoriamo le previsioni scientifiche. Ma qualche ecoscenario, e più di un presagio, confermato dalle reazioni di una natura già ai limiti della sostenibilità, si sono fatti strada nel nostro immaginario. E si riversano, dagli Stati Uniti all’Italia, in un nuovo genere letterario, che racconta le drastiche conseguenze dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici: la “climate fiction”, narrativa ambientale. Meglio: fantaecologia. Un sottogenere della fantascienza, che da qualche anno ha conquistato il cuore dei lettori più giovani. E che ora esonda dall’area “young adult” per invadere le corsie della letteratura per adulti, coinvolgendo autori di spicco.
In principio fu “Solar”, di Ian McEwan, sostengono gli osservatori del genere: pubblicato nel 2010 da Random House e in Italia da Einaudi, racconta la storia di un premio Nobel impegnato a escogitare una soluzione per salvare il pianeta dal disastro ecologico. Una pietra miliare per scandire l’inizio del fenomeno. Ma le liste, on line, si aggiornano di continuo: c’è chi indica, tra i pionieri, il giornalista inglese Marcel Theroux, e il suo “Far North”, post-eco-apocalittico romanzo ambientato nella taiga siberiana, uscito sempre nel 2010. “The New Yorker” ha stilato un vero e proprio catalogo di narratori cli-fi, includendovi nomi come Barbara Kingsolver (“Flight Behavior), David Mitchell (“The Siphoners”), Kim Stanley Robinson (“Sacred Space”), Lydia Millet (“Zoogoing”): tutti autori di libri ambientati in un futuro tormentato da super storms, siccità e risorse esaurite.
Né mancano i cercatori di scrittori di cli-fi ante litteram: a partire da Jules Verne, i cui romanzi ambientati nell’aria, nello spazio e nel fondo dei mari, non stavano già forse delineando avventure su un futuro possibile, in pieno stile odierno? Il regista Ridley Scott, non a caso, lo ha fatto capolista di un elenco di visionari, da Philip K. Dick ad Isaac Asimov, nella serie da lui prodotta qualche anno fa, e intitolata “Prophets of Science Fiction”.
Intanto, “Le Nouvel Observateur” consacra il successo de “Les Mamies de la SF”, le nonne della narrativa scientifica, Rosa Montero, Ursula Le Guin e la canadese Margaret Atwood, regina indiscussa della climate fiction globale. E il mondo anglosassone fa le prime stime: il genere è aumentato di quattro volte rispetto a sei anni fa, secondo il sito Eco-fiction.com. Non solo: #climate fiction è un hastag vivacemente utilizzato su Twitter; il genere conta svariate pagine su Facebook; è parte, a pieno titolo, delle liste dei gruppi di lettura. Sul motore di ricerca di Amazon dà 2189 risultati (l’anno scorso erano 1300). Uno stuolo di romanzi ai quali ancorare un rinnovato dibattito ambientalista. Con un’efficacia di gran lunga superiore.
«Ci siamo assuefatti agli allarmi degli scienziati», interviene lo scrittore Fabio Deotto che, con la sua formazione da biotecnologo e da appassionato «di tutta la fantascienza senza le astronavi» ha ragionato sull’argomento, e sta scrivendo un libro in pieno stile climate fiction: «Nonostante le conferme alle previsioni della scienza, quei messaggi fanno poca presa sulla gente. Lo scrittore, invece, ha il potere di regalare visioni e nuovi punti di vista. E con un romanzo può mostrarti come cambia concretamente la vita, di fronte agli sconvolgimenti ambientali».
«Credo che la cli-fi ci offra l’opportunità di sapere di più sul cambiamento climatico attivando la parte emozionale di noi stessi. Vivere, attraverso un romanzo, l’innalzamento del livello del mare a New York, o partecipare con i protagonisti di un racconto a una tragica migrazione climatica in una Germania desertificata ci colpisce dritto al cuore e, grazie all’empatia con i personaggi, ci immerge nelle complesse questioni scientifiche alla base degli avvenimenti narrati», concorda il giornalista-scrittore Bruno Arpaia, che si appresta a diventare il primo autore italiano ufficialmente del genere: il suo romanzo, “Qualcosa, là fuori”, arriverà in libreria, edito da Guanda, il 28 aprile.
«In verità, ho scoperto l’esistenza di questo genere quando avevo già scritto i due terzi del romanzo», prosegue Arpaia: «Io non credo molto nei generi letterari, li ritengo etichette per critici e editori pigri, però è evidente che questo mio romanzo ha molto in comune con la climate fiction. Preferisco tuttavia la definizione della Atwood, “speculative fiction”, molto più vasta».
La scrittrice-zoologa, cresciuta nelle foreste del Québec, è stata tra le prime a utilizzare l’espressione cli-fi, coniata dall’attivista Dan Bloom nel 2007, con l’obiettivo dichiarato di infondere un po’ di appeal alla causa ambientalista: lei lo scrisse nel 2012, in un tweet rapidamente rimbalzato tra migliaia di seguaci. Ma, mentre la sua trilogia “MaddAdam”, distopia su una natura ferita a morte (“L’ultimo degli uomini”, “L’anno del diluvio”, “L’altro inizio”, tutti editi in Italia da Ponte alle Grazie) conquistava così tanti lettori da attirare l’attenzione dei produttori di Hbo, decisi a farne una serie tv, Atwood ha precisato: «La mia non è fantascienza, perché ciò che accade nei miei romanzi non solo è possibile, ma da qualche parte potrebbe già accadere».
È successo allo scrittore Nathaniel Rich mentre scriveva “Odds Against Tomorrow”, ricorda Deotto: «Stava raccontando una Manhattan sommersa da un uragano e intanto le coste orientali degli Usa venivano spazzate dal ciclone Sandy». Più che romanzo d’anticipazione, fotografia di una realtà già tra di noi. Una circostanza verificabile durante tante altre letture, da “La sesta estinzione” di Elizabeth Kolbert (Neri Pozza) a, ben prima, “Il mondo senza di noi” di Alan Weisman (Einaudi): ma quelli erano saggi, per quanto altamente narrativi.
«Anch’io preferisco immaginare scenari possibili, probabili, a partire da dati scientifici. Fantasticare su catastrofi non mi interessa», aggiunge Arpaia: «Naturalmente, bisogna poi essere capaci di trasformare queste acquisizioni scientifiche in visioni, inserendole in un intreccio avvincente, con personaggi credibili, e cercando al tempo stesso di essere comprensibili, ma senza rinunciare alla complessità. Per costruire gli scenari dei miei protagonisti, da Napoli a Stanford, dagli Stati Uniti alla Germania e alla Svezia, ho ripreso quelli delineati da Gwynne Dyer nel saggio “Le guerre del clima”, ma li ho confrontati con i rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change e dell’European Environment Agency. Ho tenuto conto del parere di molti scienziati, come James Hansen e Dennis Bushnell della Nasa. E ho rielaborato tutto ripensando alle grandi migrazioni del passato, come quella degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. E, soprattutto, dell’homo sapiens, che è migrante da sempre».
Fantasia che si mischia al rigore della documentazione. Atteggiamento che accomuna i più interessanti autori di climate fiction. Come Karl Taro Greenfeld: il suo “The Subprimes” ha al centro un’inquietante America dove un ambiente irreversibilmente compromesso, crisi energetica e rinnovabili vietate, creano impressionanti disuguaglianze sociali. O come l’americano, di origine italiana, Paolo Bacigalupi, autore di romanzi come “The Drowned Cities”, “Ship Breaker”, “Seascape”, su un’America ridisegnata dall’innalzamento del mare, o “The Water Knife”, guerra per l’acqua tra Las Vegas e Phoenix. E sono diversi i college americani, dalla University of Oregon al Cambridge University’s Institute of Continuing Education, a proporre corsi di cli-fi per appassionare i ragazzi allo studio delle scienze, con lo stesso Bacigalupi tra gli autori più impiegati: il suo romanzo “La ragazza meccanica” (in Italia tradotto da Multiplayer Edizioni) è utilizzato, ad esempio, alla Temple University di Filadelfia per parlare di ingegneria genetica.
«Questi libri possono in effetti favorire la conoscenza delle urgenze ambientali e dare una grossa mano alle battaglie ambientaliste», sostiene Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia: «La narrazione è fondamentale: condiziona fortemente la riuscita di una campagna o meno. Un esempio? Due campagne globali: quella per il clima, che Greenpeace porta avanti in Italia dal 1992, e quella sul buco dell’ozono. L’una difficilissima da far circolare, l’altra in grado di imporsi senza neppure l’intervento degli ambientalisti. Perché? Per una questione di percezione culturale. La minaccia del buco dell’ozono suonava come un avvertimento: il cielo squarciato sembrava un monito divino a invertire rapidamente la rotta. I segnali d’allarme provenienti dal cambiamento climatico, invece, evocavano una narrazione biblica -siccità, cavallette- che non lasciava più scampo: riportava alla storia più antica di tutte, impossibile da contrastare. La narrativa ha il merito di creare scenari coinvolgenti e immediatamente percepibili dalla gente. Deve farlo rendendo comprensibile il linguaggio scientifico. E se anche la logica della storia è prevalente - da un romanzo che sceglie di appartenere al genere cli-fi mi aspetto verosimiglianza, ma metto in conto gli elementi di fantasia - i libri, ma anche i film, possono rappresentare grandi alleati. Docufilm come quello di Al Gore, “Una scomoda verità”, vincitore di molti premi, o “The age of stupid”, sono stati strumenti efficacissimi di sensibilizzazione». Quello di Franny Armstrong, del 2009, interpretato da Pete Postlethwaite, è la storia di un uomo che in un futuro neppure troppo lontano, il 2055, vive da solo in una Terra che non somiglia più all’attuale, domandandosi perché non abbiamo fermato il riscaldamento globale quando era ancora possibile.
L’alleanza tra cinema e romanzi, in materia di cli-fi, è già forte. Leonardo DiCaprio, attivamente impegnato nei temi ecologisti, ha annunciato che produrrà la trasposizione cinematografica del romanzo “The Sandcastle Empire” di Kayla Olson, ambientato nel 2049, in una Terra sconvolta da inondazioni e sovrappopolazione. E il filone è da tempo esplorato: da film come “Interstellar” di Christopher Nolan, su una siccità devastante che minaccia la sopravvivenza; da “Waterworld”, uscito addirittura vent’anni fa, con Kevin Costner mutante in cerca di una striscia di terra in un mondo sommerso dalle acque; da “Mad Max: Fury Road”, recente rivisitazione di una saga del 1979 con Mel Gibson per protagonista, che ripropone lo stesso futuro distopico dove l’acqua (e la benzina) sono risorse esaurite.
«C’è in questi film un’evidente spettacolarizzazione e una semplificazione dei temi trattati. Tuttavia, li ritengo ugualmente utili per sollevarli e coinvolgere le persone in misura ben più massiccia di quanto possiamo fare noi», interviene la presidente di Legambiente Rossella Muroni: «L’ambientalismo è stato troppo nei salotti e poco nelle piazze. Con questi libri, con questi film, si arriva alle persone in modo più diretto e suggestivo rispetto alla nostra comunicazione, che resta tradizionale. Credo molto nella sinergia con queste formule narrative. Lo abbiamo sperimentato qualche anno fa, in occasione della proiezione di “The day after tomorrow”: la nostra raccolta firme, “Fermiamo la febbre del pianeta”, suscitava all’esterno dei cinema reazioni forti e motivate, mai riscontrate prima. Merito di quella visione, che mostrava le conseguenze di un’improvvisa glaciazione. Il film aveva premesse totalmente erronee? È servito comunque ad aprire un dibattito».
Abbiamo un’ostinata riluttanza ad accettare che le catastrofi ambientali possano davvero accadere. Trascuriamo o ignoriamo le previsioni scientifiche. Ma qualche ecoscenario, e più di un presagio, confermato dalle reazioni di una natura già ai limiti della sostenibilità, si sono fatti strada nel nostro immaginario. E si riversano, dagli Stati Uniti all’Italia, in un nuovo genere letterario, che racconta le drastiche conseguenze dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici: la “climate fiction”, narrativa ambientale. Meglio: fantaecologia. Un sottogenere della fantascienza, che da qualche anno ha conquistato il cuore dei lettori più giovani. E che ora esonda dall’area “young adult” per invadere le corsie della letteratura per adulti, coinvolgendo autori di spicco.
In principio fu “Solar”, di Ian McEwan, sostengono gli osservatori del genere: pubblicato nel 2010 da Random House e in Italia da Einaudi, racconta la storia di un premio Nobel impegnato a escogitare una soluzione per salvare il pianeta dal disastro ecologico. Una pietra miliare per scandire l’inizio del fenomeno. Ma le liste, on line, si aggiornano di continuo: c’è chi indica, tra i pionieri, il giornalista inglese Marcel Theroux, e il suo “Far North”, post-eco-apocalittico romanzo ambientato nella taiga siberiana, uscito sempre nel 2010. “The New Yorker” ha stilato un vero e proprio catalogo di narratori cli-fi, includendovi nomi come Barbara Kingsolver (“Flight Behavior), David Mitchell (“The Siphoners”), Kim Stanley Robinson (“Sacred Space”), Lydia Millet (“Zoogoing”): tutti autori di libri ambientati in un futuro tormentato da super storms, siccità e risorse esaurite.
Né mancano i cercatori di scrittori di cli-fi ante litteram: a partire da Jules Verne, i cui romanzi ambientati nell’aria, nello spazio e nel fondo dei mari, non stavano già forse delineando avventure su un futuro possibile, in pieno stile odierno? Il regista Ridley Scott, non a caso, lo ha fatto capolista di un elenco di visionari, da Philip K. Dick ad Isaac Asimov, nella serie da lui prodotta qualche anno fa, e intitolata “Prophets of Science Fiction”.
Intanto, “Le Nouvel Observateur” consacra il successo de “Les Mamies de la SF”, le nonne della narrativa scientifica, Rosa Montero, Ursula Le Guin e la canadese Margaret Atwood, regina indiscussa della climate fiction globale. E il mondo anglosassone fa le prime stime: il genere è aumentato di quattro volte rispetto a sei anni fa, secondo il sito Eco-fiction.com. Non solo: #climate fiction è un hastag vivacemente utilizzato su Twitter; il genere conta svariate pagine su Facebook; è parte, a pieno titolo, delle liste dei gruppi di lettura. Sul motore di ricerca di Amazon dà 2189 risultati (l’anno scorso erano 1300). Uno stuolo di romanzi ai quali ancorare un rinnovato dibattito ambientalista. Con un’efficacia di gran lunga superiore.
«Ci siamo assuefatti agli allarmi degli scienziati», interviene lo scrittore Fabio Deotto che, con la sua formazione da biotecnologo e da appassionato «di tutta la fantascienza senza le astronavi» ha ragionato sull’argomento, e sta scrivendo un libro in pieno stile climate fiction: «Nonostante le conferme alle previsioni della scienza, quei messaggi fanno poca presa sulla gente. Lo scrittore, invece, ha il potere di regalare visioni e nuovi punti di vista. E con un romanzo può mostrarti come cambia concretamente la vita, di fronte agli sconvolgimenti ambientali».
«Credo che la cli-fi ci offra l’opportunità di sapere di più sul cambiamento climatico attivando la parte emozionale di noi stessi. Vivere, attraverso un romanzo, l’innalzamento del livello del mare a New York, o partecipare con i protagonisti di un racconto a una tragica migrazione climatica in una Germania desertificata ci colpisce dritto al cuore e, grazie all’empatia con i personaggi, ci immerge nelle complesse questioni scientifiche alla base degli avvenimenti narrati», concorda il giornalista-scrittore Bruno Arpaia, che si appresta a diventare il primo autore italiano ufficialmente del genere: il suo romanzo, “Qualcosa, là fuori”, arriverà in libreria, edito da Guanda, il 28 aprile.
«In verità, ho scoperto l’esistenza di questo genere quando avevo già scritto i due terzi del romanzo», prosegue Arpaia: «Io non credo molto nei generi letterari, li ritengo etichette per critici e editori pigri, però è evidente che questo mio romanzo ha molto in comune con la climate fiction. Preferisco tuttavia la definizione della Atwood, “speculative fiction”, molto più vasta».
La scrittrice-zoologa, cresciuta nelle foreste del Québec, è stata tra le prime a utilizzare l’espressione cli-fi, coniata dall’attivista Dan Bloom nel 2007, con l’obiettivo dichiarato di infondere un po’ di appeal alla causa ambientalista: lei lo scrisse nel 2012, in un tweet rapidamente rimbalzato tra migliaia di seguaci. Ma, mentre la sua trilogia “MaddAdam”, distopia su una natura ferita a morte (“L’ultimo degli uomini”, “L’anno del diluvio”, “L’altro inizio”, tutti editi in Italia da Ponte alle Grazie) conquistava così tanti lettori da attirare l’attenzione dei produttori di Hbo, decisi a farne una serie tv, Atwood ha precisato: «La mia non è fantascienza, perché ciò che accade nei miei romanzi non solo è possibile, ma da qualche parte potrebbe già accadere».
È successo allo scrittore Nathaniel Rich mentre scriveva “Odds Against Tomorrow”, ricorda Deotto: «Stava raccontando una Manhattan sommersa da un uragano e intanto le coste orientali degli Usa venivano spazzate dal ciclone Sandy». Più che romanzo d’anticipazione, fotografia di una realtà già tra di noi. Una circostanza verificabile durante tante altre letture, da “La sesta estinzione” di Elizabeth Kolbert (Neri Pozza) a, ben prima, “Il mondo senza di noi” di Alan Weisman (Einaudi): ma quelli erano saggi, per quanto altamente narrativi.
«Anch’io preferisco immaginare scenari possibili, probabili, a partire da dati scientifici. Fantasticare su catastrofi non mi interessa», aggiunge Arpaia: «Naturalmente, bisogna poi essere capaci di trasformare queste acquisizioni scientifiche in visioni, inserendole in un intreccio avvincente, con personaggi credibili, e cercando al tempo stesso di essere comprensibili, ma senza rinunciare alla complessità. Per costruire gli scenari dei miei protagonisti, da Napoli a Stanford, dagli Stati Uniti alla Germania e alla Svezia, ho ripreso quelli delineati da Gwynne Dyer nel saggio “Le guerre del clima”, ma li ho confrontati con i rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change e dell’European Environment Agency. Ho tenuto conto del parere di molti scienziati, come James Hansen e Dennis Bushnell della Nasa. E ho rielaborato tutto ripensando alle grandi migrazioni del passato, come quella degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. E, soprattutto, dell’homo sapiens, che è migrante da sempre».
Fantasia che si mischia al rigore della documentazione. Atteggiamento che accomuna i più interessanti autori di climate fiction. Come Karl Taro Greenfeld: il suo “The Subprimes” ha al centro un’inquietante America dove un ambiente irreversibilmente compromesso, crisi energetica e rinnovabili vietate, creano impressionanti disuguaglianze sociali. O come l’americano, di origine italiana, Paolo Bacigalupi, autore di romanzi come “The Drowned Cities”, “Ship Breaker”, “Seascape”, su un’America ridisegnata dall’innalzamento del mare, o “The Water Knife”, guerra per l’acqua tra Las Vegas e Phoenix. E sono diversi i college americani, dalla University of Oregon al Cambridge University’s Institute of Continuing Education, a proporre corsi di cli-fi per appassionare i ragazzi allo studio delle scienze, con lo stesso Bacigalupi tra gli autori più impiegati: il suo romanzo “La ragazza meccanica” (in Italia tradotto da Multiplayer Edizioni) è utilizzato, ad esempio, alla Temple University di Filadelfia per parlare di ingegneria genetica.
«Questi libri possono in effetti favorire la conoscenza delle urgenze ambientali e dare una grossa mano alle battaglie ambientaliste», sostiene Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia: «La narrazione è fondamentale: condiziona fortemente la riuscita di una campagna o meno. Un esempio? Due campagne globali: quella per il clima, che Greenpeace porta avanti in Italia dal 1992, e quella sul buco dell’ozono. L’una difficilissima da far circolare, l’altra in grado di imporsi senza neppure l’intervento degli ambientalisti. Perché? Per una questione di percezione culturale. La minaccia del buco dell’ozono suonava come un avvertimento: il cielo squarciato sembrava un monito divino a invertire rapidamente la rotta. I segnali d’allarme provenienti dal cambiamento climatico, invece, evocavano una narrazione biblica -siccità, cavallette- che non lasciava più scampo: riportava alla storia più antica di tutte, impossibile da contrastare. La narrativa ha il merito di creare scenari coinvolgenti e immediatamente percepibili dalla gente. Deve farlo rendendo comprensibile il linguaggio scientifico. E se anche la logica della storia è prevalente - da un romanzo che sceglie di appartenere al genere cli-fi mi aspetto verosimiglianza, ma metto in conto gli elementi di fantasia - i libri, ma anche i film, possono rappresentare grandi alleati. Docufilm come quello di Al Gore, “Una scomoda verità”, vincitore di molti premi, o “The age of stupid”, sono stati strumenti efficacissimi di sensibilizzazione». Quello di Franny Armstrong, del 2009, interpretato da Pete Postlethwaite, è la storia di un uomo che in un futuro neppure troppo lontano, il 2055, vive da solo in una Terra che non somiglia più all’attuale, domandandosi perché non abbiamo fermato il riscaldamento globale quando era ancora possibile.
L’alleanza tra cinema e romanzi, in materia di cli-fi, è già forte. Leonardo DiCaprio, attivamente impegnato nei temi ecologisti, ha annunciato che produrrà la trasposizione cinematografica del romanzo “The Sandcastle Empire” di Kayla Olson, ambientato nel 2049, in una Terra sconvolta da inondazioni e sovrappopolazione. E il filone è da tempo esplorato: da film come “Interstellar” di Christopher Nolan, su una siccità devastante che minaccia la sopravvivenza; da “Waterworld”, uscito addirittura vent’anni fa, con Kevin Costner mutante in cerca di una striscia di terra in un mondo sommerso dalle acque; da “Mad Max: Fury Road”, recente rivisitazione di una saga del 1979 con Mel Gibson per protagonista, che ripropone lo stesso futuro distopico dove l’acqua (e la benzina) sono risorse esaurite.
«C’è in questi film un’evidente spettacolarizzazione e una semplificazione dei temi trattati. Tuttavia, li ritengo ugualmente utili per sollevarli e coinvolgere le persone in misura ben più massiccia di quanto possiamo fare noi», interviene la presidente di Legambiente Rossella Muroni: «L’ambientalismo è stato troppo nei salotti e poco nelle piazze. Con questi libri, con questi film, si arriva alle persone in modo più diretto e suggestivo rispetto alla nostra comunicazione, che resta tradizionale. Credo molto nella sinergia con queste formule narrative. Lo abbiamo sperimentato qualche anno fa, in occasione della proiezione di “The day after tomorrow”: la nostra raccolta firme, “Fermiamo la febbre del pianeta”, suscitava all’esterno dei cinema reazioni forti e motivate, mai riscontrate prima. Merito di quella visione, che mostrava le conseguenze di un’improvvisa glaciazione. Il film aveva premesse totalmente erronee? È servito comunque ad aprire un dibattito».
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