RADIO ATWOOD in Italy -- Canada's Margaret Atwood explains to Laura Piccinini in ITALY why she pioneered term dubbed “cli-fi” [climate-change fiction]
LINK
Radio Atwood. La visionaria scrittrice racconta il "suo" Canada
Il cute premier e l’“altra America”, liberal, tollerante e fantasiosamente high tech, spiegata dalla celebre e visionaria scrittrice di Ottawa. Che twittando e scrivendo monitora e diffonde a milioni di followers e lettori le specialità nazionali: «Orgoglio della differenza e ironia»
Per avere notizie aggiornate dal Canada - culturali, ambientali, tecnologiche o presidenziali - basta seguire «radio Atwood», come la chiama la sua autorevole conduttrice, Margaret, star della letteratura internazionale nata a Ottawa e poi attivista, imprenditrice, filantropa, visionaria che azzecca mondi possibili con anni di anticipo.
In realtà la scrittrice si riferisce al suo account Twitter da 1 milione e quasi 300mila follower, da cui segnala incessantemente romanzi rivelazione, connazionali emergenti, petizioni, nuove app («ma non scriva che sono un’ambasciatrice o crederanno che sono pagata per farlo come gli influencer», ride). E in effetti twitta pure della liberazione di un’antropologa da parte dell’Iran grazie al governo Trudeau o dell’ultima chance che ha il premier di dire no alla costruzione di un oleodotto transcanadese.
Margaret Atwood, che ha appena ricevuto il PEN Pinter Prize 2016 per l’impegno in cause politiche, non può non monitorare l’operato del «cute prime minister» canadese, come lo chiama lei al telefono da Toronto con misto di orgoglio e tipica autoironia nazionale («Ridiamo prima di noi e poi degli altri, è un residuo della “posizione della vittima”, da ex isola britannica tagliata fuori dal gigante Usa»). «Un premier giovane e carino non è certo uno svantaggio. L’ultima cosa che ci aspettavamo era di essere considerati chic o il paese del momento, e invece improvvisamente dobbiamo farci l’abitudine» (LEGGI: JFK CANADESE).
Da osservatrice professionista delle vite degli altri, dice che «c’è molto più ottimismo in giro. Generalmente è sempre così quando c’è un cambio di governo, specie considerando che il precedente era il contrario della trasparenza: negazionista del cambiamento climatico, metteva il bavaglio agli scienziati impedendo la pubblicazione di dati allarmanti e ostacolava le associazioni ambientaliste (io ne frequento parecchie), essendo essenzialmente un governo del petrolio che non voleva interferenze. Ma ha generato eccitazione anche quello spuntare a sorpresa del giovane leader, raccogliere fondi in un lampo, risalire i sondaggi e vincere dando ai canadesi l’idea di fresh-start», ricominciare da capo. Tipo «supereroe» (Atwood è cresciuta coi fumetti, lui si è meritato una copertina Marvel). Pazienza se «ha una moglie perfetta, è decisamente atletico, diverso dalla media dei politici sul palcoscenico mondiale. Non penso che dobbiamo sentirci fortunati per questo. Ma nessuno può negare che abbia buone intenzioni», dice lei (che infila tatticamente una serie di doppie negazioni per affermare che in fondo, massì, non le dispiace). «Ed è sicuramente più empatico di suo padre Pierre», premier nei ’60 e ’80 forse sopravvalutato.
Atwood era convinta già un anno fa, quando intervenne pubblicamente in difesa del giovane Trudeau e fece scoppiare l’#hairgate, chiedendosi sul National Post perché mai l’allora premier conservatore Stephen Harper dovesse parlare ossessivamente della chioma dello sfidante liberal fino ai manifesti con slogan satirico «Bei capelli, Justin». «Da persona che ha combattuto una personalissima guerra coi sui, di capelli, dai tempi in cui l’ideale da incubo era il liscio Twiggy, chiedevo se è accettabile che i capelli diventino la misura di un uomo o una donna». L’editoriale svanì misteriosamente dal sito del quotidiano, i fan le comunicarono che era stata censurata e «Sapete com’è internet, diventò un caso internazionale». Justin rispose con uno spot dove appariva intento a risolvere i problemi dell’elettorato mentre l’avversario pensava ai suoi capelli. Da lì in poi è stato tutto un “effetto Trudeau”. Ma non sarà per questo se i follower di Atwood sono saliti di mezzo milione e quattro suoi bestseller stanno per diventare serie tv: «Tutti girati nei nostri studios. Questione di denaro più che di coolness».
In uno dei quattro, Il racconto dell’ancella, diritti acquisiti da Hbo, il Canada è il posto dove si sogna di trasferirsi per sfuggire a una teocrazia distopica che tiene le donne fertili in ostaggio per fare figli (la ministra Lorenzin lo avrà letto?). E alle soglie delle presidenziali Usa il tormentone «Se vince l’uomo dalla pelle arancione me ne vado in Canada», intasa la rete. «Se è per questo ho sentito anche chi minaccia di venire qui se vince Hillary», aggiunge, ricordando che tanti statunitensi sono già arrivati da loro per sfuggire alla guerra del Vietnam. «Non è tutto nuovo quello che lo sembra».
Piuttosto, l’apertura del Canada di oggi agli immigrati è un esempio di «eccezionalismo» esagerato, obietta: «Siamo aldilà dell’Oceano, abbiamo a sud gli Usa, l’Artico a Nord e l’Alaska a Ovest: non è facilissimo per i clandestini raggiungerci. Alcuni ci riescono e ne abbiamo accolti, ma non abbiamo gli stessi numeri dell’Europa e siamo ben lontani da un “assedio”. Né abbiamo i fantasmi della schiavitù come gli Stati Uniti. Gli americani si fanno spaventare dal terrorismo come dalle proteste sacrosante per i neri ammazzati per strada. Noi abbiamo avuto i nostri problemi, ma loro sono posseduti dai propri», dice la scrittrice, ricordando come Toronto, dove vive, per immigrazione sia la seconda città italiana al mondo dopo Roma, e non le dispiace. Come non le dispiace che il governo canadese voglia abolire la pena detentiva per possesso di marjiuana e passare alla legalizzazione (ma non si potrà coltivare in casa come la birra «perché gli effetti sociali e fisici sono più rilevanti», ha comunicato un ministro). E a proposito di birra, la multitasking Atwood col suo fidanzato Graeme ne ha lanciato una con l’etichetta NooBroo: è ispirata alla trilogia MaddAddam, l’altra sua opera in fase di adattamento tv, regista Darren Aaronofsky. «La mia droga è la caffeina, se ne proibissero l’uso dovrei procurarmela da qualcuno legato a una qualche mafia. E la gente non vuole pagare le tasse per mantenere prigioni dove poi si finisce per reati del genere».
Atwood ha l’irresistibile tendenza a mettere carceri nei suoi romanzi: simboliche o reali. Ce n’è una di un vicino futuro in Per ultimo il cuore (pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie e prossima serie tv per MGM), ispirata ai penitenziari for-profit: ci lavora a mesi alterni, per fabbricare sexrobot, la coppia di disoccupati post-crisi Stan e Charmaine. Ci sono 9 prigioni nel suo nuovo romanzo, dato tra gli imperdibili d’autunno: Hag-Seed, remake della Tempesta di Shakespeare con un moderno Prospero ispirato ai reality. «Ho scoperto che un carcerato italiano ha messo in scena lo stesso testo e ci ha scritto un libro spiegando come avesse effetti trasformativi sui detenuti. Io credo che dobbiamo decidere a cosa servono le prigioni: a trasformare i criminali in persone migliori? A tenerli lontano dalla gente comune? A farne manodopera a basso costo, per cui più ce sono dentro meglio è?». Aveva messo il penitenziario utopico di Kingston, Ontario, già in Alias Grace, l’altro dei suoi romanzi (una cameriera condannata a 30 anni con controverso verdetto per omicidio) che vedremo su Netflix, diretto da Sarah Polley, dove Atwood rivela di avere un cameo in abiti del ’900. «E un altro ce l’ha David Cronenberg! Non è divertente? Lui fa un prete. Eravamo compagni di università. C’era anche Donald Sutherland, ma aveva altri interessi».
L’altro risultato della conformazione geografica del Canada è l’ossessione per la comunicazione, dice invitando a guardare il video degli YouTuber Arrogant Worms Canada is Really Big: «Questo posto fa sentire talmente remoti che siamo stati praticamente i primi a usare il telefono. Siamo early adopter, utenti precoci. E abbiamo creato il basket e Superman. Ci siamo inventati cose con meno mezzi su cui poi hanno guadagnato gli Usa». Lei stessa lanciò la LongPen, per autografi a distanza contro lo stress degli incontri con l’autore (prodotta dalla Syngrafii Inc. di cui è Ceo, anche se ha avuto più successo per il banking). «I lettori continuano a preferire i booktour. Lo sa che abbiamo inventato anche quelli?». E accenna alla storia di Jack McClelland, l’editore che scoprì lei, Mordecai Richler, Leonard Cohen e li mandò in giro a promuoversi, da grande nazionalista e fan del coltissimo Trudeau padre. Il figlio, per evitare i soliti master da privilegiato, ha fatto il maestro e la sua autobiografia di sopravvivenza al glamour di famiglia, Common Ground, è nella lista dell’app per condivisione letture Reco, altro algoritmo local caldeggiato da Atwood.
Dove la scrittrice aspetta al varco Justin Trudeau è sul sì o no alla vecchia economia del petrolio. «In questo i norvegesi fanno meglio», dice, e al giovane premier farebbe leggere il saggio del connazionale, ovviamente, Barry Lord: Art & Energy: «Affascinante dimostrazione di come la cultura di una società derivi direttamente dal suo modello energetico: dal petrolio che è una materia cheap e non nobile la cultura del consumismo, dal nucleare quella dell’ansia, dalle rinnovabili lo sharing», racconta lei. Che è pure pioniera della “cli-fi”, climate-change fiction, anche se non ama l’etichetta. Per ora pensa alla salvaguardia di gatti e uccelli lanciando la graphic novel Angel Catbird (per tenere i gatti a casa e non farli finire nelle statistiche di quelli investiti, e salvaguardare gli uccelli loro preda preferita). Il suo compagno post-divorzio da 45 anni, in omaggio al quale ha augurato su Twitter #HappyNationalBoyfriendDay, è birdwatcher per amore. Hanno una figlia 40enne e alla fine di ogni suo romanzo distopico Atwood precisa: «Nonostante mi sia sempre di ispirazione, nessun personaggio di questo libro è ispirato a Graeme Gibson. Ed è un’ottima cosa».
La chiamano “femminista” dai tempi di La donna da mangiare (una giovane canadese smette di nutrirsi per non farsi divorare da fidanzato, lavoro, aspettative sociali), eppure ogni volta le vengono i capelli ancora più frizzy. «Sono felice di esserlo se chi me lo dice mi spiega cosa intende: se si tratta di buttare gli uomini giù dalla cima non lo sono; se è pretendere parità di paga, sì». La sua risposta alla questione del sexual consent sta in un proverbio canadese: «Alla domanda “vuoi fare sesso?”, una ragazza risponde: “Sì, ma solo se ne fai un po’ anche tu”. Rilanciare come un boomerang gentile la finta correttezza dell’interlocutore». E del parlamento canadese matematicamente diviso a metà tra uomini e donne cosa pensa? «È interessante a livello simbolico. Vediamo se lo sarà in pratica. Mi sento di dire che ciascun sesso è in grado di fare cose tremende, nel suo genere». Alla fine, anche per Justin Trudeau e il governo vale quello che Atwood dice del prossimo libro: «Non posso dire di più, perché non so come finirà finché non sarà finito».
No comments:
Post a Comment